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Beethoven Mon Amour
Project type
Conference
Date
28 Febbraio 2025
Location
Bologna, Conservatoire
Text
Ludwig van Beethoven e l'Arte del Pedale: Un Viaggio tra
Innovazione e Tradizione nelle 32 Sonate per Pianoforte
Introduzione
Nel vasto firmamento della musica classica, le 32 sonate per pianoforte di Ludwig van Beethoven brillano come astri di prima grandezza. Ognuna di esse rappresenta un universo sonoro in cui l'uso del pedale, notato o meno sullo spartito, non è un semplice artificio tecnico, ma uno strumento essenziale per scolpire paesaggi emotivi e architetture sonore. Questo mio breve intervento si propone di esplorare l'evoluzione dell'impiego del pedale nelle sonate beethoveniane, intrecciando analisi storica, testimonianze dei contemporanei e riflessioni sulle sfide interpretative odierne.
[1. La Formazione di Beethoven: Radici di un Genio]
L'infanzia di Beethoven fu plasmata dalle sapienti mani di Christian Gottlob Neefe, il maestro che lo introdusse ai misteri dell'arte musicale. Attraverso gli insegnamenti di Johann Joseph Fux, Friedrich Wilhelm Marpurg e Johann Philipp Kirnberger, il giovane Ludwig assimilò le fondamenta della composizione e della teoria musicale. Nonostante le avversità, tra cui la crescente sordità, Beethoven non si limitò a essere un virtuoso del pianoforte, sebbene non fosse un pianista di carriera come potremmo intenderlo oggi; divenne un alchimista del suono, trasformando le limitazioni in fonti inesauribili di creatività.
Pochi furono gli eletti che poterono apprendere direttamente da lui: il nipote Karl, Ferdinand Ries e Carl Czerny. Questi discepoli divennero i custodi di una tradizione che fondeva tecnica impeccabile e profondità espressiva. Una tradizione che si articolava attorno a due grandi filoni di compositori: quelli che utilizzavano lo strumento per tradurre stilemi musicali ispirati all’emotività cantabile, e quelli che, in qualità di pianisti-compositori, si spingevano verso un linguaggio che esaltava più che commuoveva, con combinazioni virtuosistiche sorprendenti e, talvolta, rischiose.
[2. Il Contesto Storico: L'Evoluzione del Pianoforte e del Pedale]
Il rapporto discepolare si fondava su una dinamica in cui tradizione e trasmissione dei saperi giocavano un ruolo decisivo, articolandosi in due aree fondamentali:
La grammatica, che nel nostro caso specifico rappresenta la tecnica di un pianista attraverso il processo di identificazione in una scuola o in un metodo;
Gli insegnamenti legati allo stile e all’estetica, che oggi potremmo definire interpretazione in senso generico, in cui tradizione, ricerca, riscoperta, etica e sperimentazione si intrecciano in un vortice virtuoso di infinite possibilità.
Nel crepuscolo del XVIII secolo, il pianoforte stava subendo metamorfosi che ne avrebbero ampliato le potenzialità espressive. Artigiani visionari come Johann Andreas Stein, Anton Walter e John Broadwood introdussero innovazioni che resero lo strumento più versatile e potente. Il pedale, in particolare, divenne il ponte tra l'intenzione dell'artista e l'anima dello strumento, permettendo di modulare timbri e risonanze con una sensibilità prima inimmaginabile. In questo scenario, Beethoven si erge come pioniere, esplorando le profondità sonore offerte dal pedale per dare voce alle sue visioni interiori.
[3. Trattatistica e Scuole Pianistiche dell'Epoca]
L'epoca di Beethoven fu un crocevia di pensieri e stili, in cui i trattati delineavano le vie maestre dell'interpretazione pianistica. Carl Philipp Emanuel Bach, con il suo "Versuch über die wahre Art das Clavier zu spielen", offrì una guida dettagliata sull'espressione e l'articolazione, influenzando profondamente la prassi esecutiva. Il suo metodo definì due approcci distinti, ma complementari: se in Germania l’esecuzione era caratterizzata da misura e proporzione, un pathos cristallizzato e contenuto, nel mondo anglo-francese emergeva un’estetica sperimentale, ricercata per la ricerca stessa, con una marcata attenzione alle possibilità tecniche e combinazioni meccaniche dello strumento, elevandolo a un livello di virtuosismo senza precedenti, caratterizzato da forti contrasti di sonorità e un pathos liberatorio.
Muzio Clementi, attraverso opere didattiche come il "Gradus ad Parnassum", sviluppò un linguaggio pianistico che esaltava la sperimentazione sonora e la ricerca tecnica. La sua didattica segnò una svolta nel pianismo, privilegiando il legato e la fluidità del suono. A lui si affiancarono figure come Johann Nepomuk Hummel, che enfatizzò il tocco a pressione, e Daniel Gottlob Türk, il quale introdusse nuovi criteri di articolazione e dinamica. Parallelamente, la scuola inglese, con figure come Dussek e Kalkbrenner, si orientò verso un linguaggio pianistico più virtuosistico e brillante, mentre in Francia Louis Adam, con il suo "Méthode du piano du Conservatoire", gettava le basi di un nuovo modo di insegnare il pianoforte. Adam, come Boieldieu, si opponeva al tempo rubato e privilegiava un tocco chiaro e netto, con un uso misurato del pedale.
Nel mutare dei secoli, queste tradizioni si fusero in un panorama complesso e affascinante, in cui Beethoven, con la sua scrittura audace e visionaria, emerse come sintesi suprema di classicismo e modernità, tracciando un sentiero che avrebbe segnato la storia del pianismo per le generazioni a venire. Questi contributi costituirono il terreno fertile su cui Beethoven sviluppò la sua arte, integrando tradizione e innovazione in una sintesi sublime.
[4. Testimonianze degli Allievi: Voci dal Cerchio Intimo]
Carl Czerny, allievo devoto di Beethoven e figura cardine nella trasmissione della sua eredità didattica, ha svolto un ruolo cruciale nel collegare la tecnica pianistica di Muzio Clementi con l'approccio espressivo del suo maestro. Nel suo monumentale Vollständige theoretisch-praktische Pianoforte-Schule op. 500, Czerny offre una trattazione dettagliata sull'uso del pedale, riflettendo sia l'influenza di Clementi che l'essenza interpretativa beethoveniana.
Czerny enfatizza l'importanza di un uso consapevole e misurato del pedale, avvertendo che un'applicazione indiscriminata potrebbe compromettere la chiarezza e la purezza delle linee musicali. Le sue descrizioni sull'impiego del pedale sono complesse e articolate, evidenziando una profonda consapevolezza delle sue potenzialità espressive e del suo utilizzo. Egli sottolinea come Beethoven, pur fornendo indicazioni specifiche, lasciasse spazio all'interpretazione personale, esortando gli esecutori a immergersi nello spirito della musica per coglierne l'essenza profonda.
"Durante la prima lezione, Beethoven mi mise soltanto a fare delle scale in tutti i toni, mi mostrò la sola giusta posizione delle mani e delle dita, allora sconosciuta alla maggior parte degli esecutori, e particolarmente all’uso del pollice – regola della quale solo più tardi imparai a capire l'utilità. Dopo di ciò lesse con me gli esercizi di questo metodo [il saggio di Bach], attirando la mia attenzione soprattutto sul legato ch’egli possedeva in modo veramente insuperabile…" (C. Czerny)
Beethoven stesso scriveva a Czerny nel 1817:
"Rispetto al modo di suonare, la prego di vedere ch’egli prima di tutto abbia una buona diteggiatura poi, suoni a tempo, e possibilmente non prenda troppe note false, e dopo soltanto lo correggerà nel modo di porgere; e quando sarà giunto fin qui, non lo interrompa per qualche piccolo errore, ma glielo faccia notare solamente alla fine del pezzo."
Czerny analizza inoltre il concetto di rubato, descrivendone le varie applicazioni legate alle emozioni musicali e alla struttura espressiva di un brano. Questo approccio sistematico dimostra la volontà di integrare la tecnica clementina con l'espressività beethoveniana, offrendo agli interpreti strumenti per una resa autentica e profondamente sentita delle opere pianistiche.
Un'altra testimonianza preziosa proviene da Ferdinand Ries, anch'egli allievo privilegiato di Beethoven. Le sue memorie rivelano un maestro che vedeva nel pedale non solo un mezzo tecnico, ma un'estensione dell'anima dell'interprete, capace di infondere vita e colore al tessuto sonoro. Ries ricorda come Beethoven incoraggiasse una sensibilità acuta nell'uso del pedale, adattandolo alle sfumature emotive di ogni passaggio.
"Se in qualche punto commettevo uno sbaglio e non coglievo esattamente delle note o erravo comunque in un rapido passaggio, cui spesso voleva dar particolare rilievo, di rado ci trovava da ridire; se però non davo la dovuta espressione a qualche frase, ai crescendo etc. o al carattere generale del pezzo stesso, allora montava su tutte le furie. Mi diceva cioè che i primi inconvenienti erano dovuti al caso, ma i secondi denotavano invece manchevolezze di cognizioni, di sentimento e di attenzione. Anche a lui stesso accadeva ben di frequente, persino quando suonava in pubblico, di commettere qualche sbaglio della prima specie.” (F. Ries)
Attraverso l'op. 500 e le sue annotazioni sulle sonate, Czerny non solo codifica gli insegnamenti ricevuti da Beethoven, ma li arricchisce con le influenze tecniche di Clementi, creando un ponte tra la rigorosa tecnica e l'espressione emotiva. Questo lavoro monumentale rimane una risorsa essenziale per comprendere l'approccio interpretativo e tecnico del periodo classico e romantico, rivelando una consapevolezza dell'uso del pedale che trascende la mera funzione tecnica e diventa un elemento strutturale dell'interpretazione pianistica.
[5. Le Indicazioni di Beethoven sull’Uso del Pedale]
Beethoven, con la sua penna intrisa di genio, aperto e consapevole di quanto accadesse al di là di Vienna, vigile sugli usi del pedale che si andavano definendo nelle forme più avanguardistiche del tempo - e spesso relegate a una pratica marginale - lasciò tracce precise sull’impiego del pedale nelle sue composizioni a partire dall’op. 26. Esempi eclatanti ed estranei a un gusto conforme appaiono nella Sonata n. 14 “Al chiaro di luna”, dove annota: “Si deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente e senza sordino”. Questa direttiva invita l’interprete a immergere il suono in un alone di misteriosa risonanza, creando un’atmosfera eterea. Tuttavia, l’interazione con i pianoforti moderni richiede un approccio ponderato: la maggiore risonanza degli strumenti odierni potrebbe offuscare la nitidezza delle linee melodiche, rendendo necessario un uso calibrato del pedale per mantenere l’equilibrio tra fedeltà storica e chiarezza esecutiva. È pur vero che demistificare questa osservazione richiede coraggio, se vogliamo interpretare il progressivo processo di standardizzazione dello strumento fino ai giorni nostri, e quanto il dispositivo del pedale abbia oggi una complessità e ricchezza tali da rivelare sonorità che vale la pena conoscere e sperimentare, restituendo un immaginario sonoro che un pubblico ormai silenzioso, un tempo, conosceva intimamente.
Numerosi sono gli esempi di usi non convenzionali da parte di Beethoven. Egli fu tra i primi compositori a stabilire con estrema precisione ogni segno espressivo, guidando l’interprete nell’avvicinarsi quanto più possibile ai suoi intenti evocativi. Un esempio evidente è la Sonata n. 21 in Do maggiore, Op. 53 “Waldstein”: nel terzo movimento, un rondò, Beethoven indica l’uso del pedale di risonanza in passaggi estesi, con evidenti richiami alle mode pianistiche francesi dell’epoca, dove era prassi immergere nel pedale i rondò, creando un effetto di sospensione armonica e continuità sonora.
Un altro caso emblematico è la Sonata n. 17 in Re minore, Op. 31 n. 2 “La Tempesta”, in cui l’utilizzo del pedale viene marcato in concomitanza di passaggi in stile recitativo e a mo’ di fantasia, secondo la perfetta tradizione delineata da Carl Philipp Emanuel Bach. Inoltre, Beethoven impiega segni di pedale in combinazione con segni di staccato, in concomitanza di pause, a cavallo di sezioni, e in presenza di trilli estesi o effetti di tremolo, rivelando un uso del pedale non solo funzionale, ma pienamente integrato nella struttura espressiva della composizione.
Questi elementi, uniti alla straordinaria capacità di Beethoven di esplorare le possibilità timbriche del pianoforte, dimostrano come il pedale, nelle sue mani, non fosse soltanto un dispositivo tecnico, ma un’estensione della sua poetica musicale. Il pedale non era più soltanto un mezzo per connettere armonie o amplificare il suono, ma diveniva una componente essenziale della narrazione musicale, in grado di modellare l’intensità emotiva e la profondità espressiva delle sue opere.
Considerazioni e Saluto di Congedo
L’uso del pedale nelle 32 Sonate di Beethoven non è semplicemente un’eredità del passato da studiare con distacco filologico, ma un territorio ancora vivo, capace di interpellare la sensibilità dell’interprete moderno e di porre sfide che trascendono la mera questione tecnica. È un ponte tra il suono e il silenzio, tra la scrittura e l’evocazione, tra la partitura e l’immaginario che essa suscita. Il pedale, nella visione di Beethoven, diviene il respiro stesso della sua musica, un’ombra che sfuma i contorni o un’eco che amplifica l’intensità espressiva.
Ma se oggi, dinanzi a questa straordinaria eredità, ci interroghiamo su come restituire il suo spirito senza tradire la sua essenza, ci rendiamo conto che il nostro compito non è soltanto quello di risolvere problemi di natura strumentale o storica. L’interprete non è un semplice tramite, ma un essere chiamato a riaccendere ogni volta quella fiamma che Beethoven stesso infondeva nella sua scrittura, un fuoco che arde tra fedeltà e reinvenzione, tra tradizione e urgenza espressiva.
L’ascolto di questa musica, il suo studio e la sua interpretazione ci impongono dunque un atto di responsabilità, non soltanto nei confronti del testo musicale, ma nei confronti della verità più profonda dell’arte: quella di saper trasformare il suono in esperienza, la tecnica in visione, la memoria in presenza viva. Forse proprio in questo continuo slancio interpretativo risiede la sfida più grande, quella di mantenere vivo lo spirito della ricerca, di non smarrire il senso del nostro fare musica.
Come scrive Marie-Louise von Franz:
“È facile essere un ingenuo idealista. È facile essere un realista cinico. È un’altra cosa non avere illusioni e mantenere ancora la fiamma interiore.”
Con questo spirito, mi congedo da voi, augurandomi che questo breve contributo possa aver acceso una scintilla di riflessione, un frammento di quella fiamma che Beethoven, con il suo genio insondabile, ha affidato a chiunque abbia il coraggio di cercarla.
Grazie per l’attenzione.
[Antonio Piricone]
ABSTRACT
L’uso del pedale nelle 32 Sonate per pianoforte di Ludwig van Beethoven rappresenta un aspetto fondamentale della sua estetica e della sua ricerca sonora. Ben lontano dall’essere un semplice artificio tecnico, il pedale si configura come un vero e proprio strumento espressivo, capace di scolpire il suono, amplificarne la risonanza e infondere profondità timbrica alla scrittura pianistica.
Attraverso un’analisi storico-estetica, questo intervento esplora il modo in cui Beethoven ha impiegato il pedale nelle sue Sonate, mettendo in luce la sua progressiva emancipazione dalla prassi settecentesca e il suo contributo innovativo all’evoluzione del linguaggio pianistico. Le testimonianze dei suoi allievi, in particolare Carl Czerny e Ferdinand Ries, ci offrono preziose indicazioni sul suo approccio didattico e interpretativo, rivelando come il pedale fosse concepito non solo come mezzo tecnico, ma come prolungamento della sensibilità e dell’intenzione musicale.
Un focus particolare verrà dedicato all’influenza dei trattati dell’epoca e alle differenti scuole pianistiche – dalla tradizione tedesca di C.P.E. Bach alla sperimentazione di Muzio Clementi, fino agli sviluppi francesi e inglesi – per comprendere il contesto in cui Beethoven operava e innovava. Infine, si rifletterà sulle sfide che l’interprete contemporaneo affronta nell’uso del pedale, a fronte delle trasformazioni strutturali del pianoforte moderno, e sulle possibili strategie per coniugare fedeltà storica e resa espressiva.
Il pedale, nella visione beethoveniana, diventa così non solo uno strumento di esaltazione sonora, ma un elemento strutturale e retorico, un “respiro musicale” capace di amplificare il pathos e la narrazione interna delle sue opere, lasciando un’eredità imprescindibile per tutta la letteratura pianistica successiva.





















